Dei Patti Divini in Generale

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Dei Patti Divini In Generale


Hermann Witsius (1636–1708)


Tratto da L’Economia dei Patti tra Dio e l’Uomo, libro I, cap. 1.


I.

Chiunque intraprenda uno studio del soggetto e dell’intento dei Patti Divini, per mezzo dei quali la salvezza è concessa all’uomo a certe condizioni ugualmente degne di Dio e della creatura razionale, deve avere sopra ogni cosa un sacro e inviolabile riguardo per gli oracoli celesti, e senza pregiudizi nè passioni, non deve aggiungere alcuna cosa che non sia, per sua ferma persuasione, contenuta nelle tavole che espongono al mondo questi patti. Infatti, se Zaleuco pose la condizione per essere approvati dai contenziosi interpreti delle sue leggi, “che ogni parte spiegasse l’intento del legislatore, nell’assemblea dei mille, con una capezza intorno al collo: e la parte [che avesse ricevuto] il voto negativo dei mille, fosse uccisa mediante la capezza che portava”, come riferisce Polibio, autore molto serio, nel Libro xii c. 7 del suo Storie. E se ai Giudei e ai Samaritani in Egitto, che disputavano sul loro tempio, era consentito di appellarsi al re e alla sua corte a questa sola condizione, che “gli avvocati della parte respinta fossero puniti con la morte”, secondo Iosefo, nel suo Antiquites, Libro xiii, c. 6. Certamente deve trovarsi in maggiore pericolo, e soggetto ad una distruzione più severa, chi osa pervertire, corrompendoli sconsideratamente, i sacri misteri dei Patti Divini; poiché il nostro stesso Signore dichiara “Chi adunque avrà rotto uno di questi minimi comandamenti, ed avrà così insegnati gli uomini, sarà chiamato il minimo nel regno de' cieli”, Mat. v.19. È, quindi, con una sorta di sacra riverenza che intraprendo quest’opera; pregando Iddio che, mettendo da parte ogni pregiudizio, io possa procedere come un obbediente discepolo delle sacre Scritture, e, con modestia, possa impartire ai miei fratelli ciò che penso d’aver imparato d’esse: se questo mio povero sforzo potrà servire felicemente a ridurre il numero delle dispute e ad aiutare a chiarire la verità, questo più di ogni altra cosa dovrà essere ritenuto di maggior valore.

II.

Poiché è con le parole, specialmente con parole di quei linguaggi nei quali Dio si è compiaciuto di rivelare i suoi sacri misteri agli uomini, che noi possiamo, con speranza di successo, giungere alla conoscenza delle cose, sarà utile investigare più accuratamente il senso della parola Ebraica berith e di quella Greca diatheke, che lo Spirito Santo utilizza in questa materia. E per prima cosa, dobbiamo fornire la vera etimologia della parola Ebraica, e poi i suoi differenti significati. Rispetto alla prima, gli studiosi discordano: alcuni la fanno derivare da barà, che in Piel significa tagliare: perché, come osserveremo subito, i patti erano ratificati solennemente tagliando o dividendo in parti degli animali. Può anche esser fatta derivare dalla stessa radice, ma con un significato molto differente; infatti, siccome barà propriamente significa creare, così, metaforicamente, è ordinare, o disporre, che è il significato di diatithesthai. Da questo deriva il fatto che i Giudei Ellenisti usano to ktizein. Certamente è in questo senso che Pietro, in I Pie. ii. 13, chiama exousia, potestà creata dagli uomini, e per scopi umani, anthropine ktisi, l’ordinanza dell’uomo; al quale, io penso, Grotius ha eruditamente fatto riferimento nel titolo del Nuovo Testamento. Altri invece lo fanno derivare da berit, come srith da shbath, con il significato, fra le altre cose, di scegliere. E nei patti, specialmente d’amicizia, c’è una scelta di persone tra le quali, di cose sulle quali, e di condizioni alle quali, si instaura un patto; neppure questo è osservato in modo improprio.

III.

Ma berith è usato in vari modi nella Scrittura: a volte impropriamente, e a volte propriamente. In senso improprio, esso denota le seguenti cose. (1.) Un’ordinanza immutabile stabilita riguardo ad una cosa: in questo senso Dio cita il suo “patto intorno al giorno, e il patto intorno alla notte”, Ger. xxxiii. 20. Come dire, quella precisa ordinanza stabilita sull’ininterrotto avvicendamento di giorno e notte; che, nel cap. xxxi. 36, è chiamato heq, ossia, scritto, limitato, o stabilito, al quale nulla deve essere aggiunto o sottratto. In questo senso è incluso nel concetto di testamento, o di ultima irrevocabile volontà. Così Dio disse, in Num. xviii. 19, “Io dono a te e a’ tuoi figliuoli, e alle tue figliuole, teco, berith melah, per statuto perpetuo: questa è una convenzione di sale perpetua.” Questa osservazione è utile per spiegare più compiutamente la natura del patto di grazia, che l’apostolo propone dietro la similitudine di un testamento, la cui esecuzione dipende dalla morte del testatore, Ebr. ix. 15, 16, 17. A questa concezione possono condurci tanto l’Ebraico berith quanto il Greco diatheke. (2.) Una promessa sicura e stabile, sebbene non reciproca, Eso. xxxiv. 10, “Ecco, io fo patto nel cospetto di tutto il tuo popolo; io farò maraviglie;” Isa. lix. 21, “Questo sarà il mio patto che io farò con loro: Il mio Spirito, che è sopra te, e le mie parole che io ho messe nella tua bocca, non si partiranno giammai dalla tua bocca.” (3.) Significa un precetto, Ger. xxxiv. 13, 14, “Io feci patto co’ padri vostri…. dicendo: Al termine di sette anni rimandi ciascun di voi il suo fratello.” Da questo appare il motivo per cui il Decalogo viene chiamato il patto di Dio. Ma in senso proprio, esso significa un mutuo accordo tra parti riguardo a qualcosa. Tale fu il patto stabilito tra Abrahamo, Mamre, Escol e Aner, che sono chiamati collegati con Abrahamo, Gen. xiv. 13. Tale fu anche quello tra Isacco e Abimelec, Gen. xxvi. 28, 29; tra Gionatan e Davide, 1 Sam. xviii. 3. E di questo genere è pure quello che noi dobbiamo ora trattare tra Dio e l’uomo.

IV.

Non meno ambiguo è il diatheke dei Greci, che sia al singolare che al plurale denota spesso un testamento, come mostra Bedaeus nel suo Comment. Ling. Graec. da Isocrate, Eschine, Demostene e altri. In questo senso, abbiamo suggerito, è stato usato dall’apostolo in Ebr. ix. 15. A volte denota anche una legge che è una regola di vita. Infatti [in questo modo] gli Orfici e i Pitagorici si riferivano alle regole di vita prescritte ai loro studenti, secondo Grotius. Esso spesso significa anche un impegno o accordo; per questa ragione Esichio lo spiega come sunomosia, confederazione. Non vi è nessuno di questi significati, ma ci saranno utili nel prosieguo di quest’opera.

V.

Stabilire un patto, gli Ebrei lo chiamano berith berint, fendere un patto, nella stessa maniera dei Greci e dei Latin, ferire, icere, percutere foedus. La qual cosa indubbiamente trasse origine dall’antica cerimonia di uccidere animali, con la quale erano ratificati i patti. Di questo rito possiamo osservare tracce molto antiche in Gen. xv. 9, 10. Questo fu comandato da Dio in principio, oppure tratto da qualche usanza esistente. È indicativo ciò che Polibio, nel Libro iv pag. 398, riferisce dei Cinetesi, “sopra le vittime uccise essi prestarono un giuramento solenne, e promisero fede l’uno all’altro,” una frase che è chiaramente simile a quella che Dio usa nel Sal. l. 5 “han fatto meno un patto con sacrificio.” Essi usavano anche passare in mezzo alle parti dell’animale tagliato in due, Ger. xxxiv. 18. Chiunque desideri sapere di più di questo rito, può consultare Grotius su Mat. xxvi. 28 e Bochart nel suo Heroizoicon, Libro ii, cap. i. Era altresì un’usanza che i contratti e i patti fossero ratificati con solenni banchetti. Esempi di questo sono evidenti nella Scrittura. Così viene detto che Isacco, dopo aver fatto un patto con Abimelec, fece un grande banchetto e mangiò con loro, Gen. xxvi. 30. In modo simile si comportò suo figlio Giacobbe, dopo aver fatto un patto con Labano, Gen. xxxi. 54. Leggiamo di un simile banchetto federale in 2 Sam. iii. 20, dove si riferisce del banchetto che Davide fece per Abner e i suoi uomini, che vennero a fare un patto con lui in nome del loro popolo. Era anche un’usanza fra i pagani, come mostra l’erudito Stuckius nel suo Antiquitates Convivales, lib. l, cap. xl.

VI.

Questi riti non erano privi del loro significato. Il tagliare in due gli animali denotava che, nella medesima maniera, gli spergiuri e i trasgressori dovevano essere tagliati in due dalla vendetta di Dio. E questo è lo scopo di ciò che Iddio dice in Ger. xxxiv. 18, 19, 20, “E darò gli uomini che han trasgredito il mio patto, e non han messe ad effetto le parole del patto che aveano fatto nel mio cospetto, passando in mezzo delle parti del vitello che aveano tagliato in due…. li darò, dico, in man de’ lor nemici, e in man di quelli che cercano l’anima loro; e i lor corpi morti saran per pasto agli uccelli del cielo, ed alle bestie della terra.” Vedi 1 Sam. xi. 7. Un’antica forma di queste maledizioni è presente in Livio, Libro i, “Il popolo Romano non violi per primo queste condizioni; ma se dovessero violarle apertamente, o con l’inganno, possa tu, o Giove, in quel giorno colpire il popolo Romano come ora io colpisco questo maiale, e sia il tuo colpo essere più grave, quanto maggiore è il tuo potere.” Con la cerimonia in cui i confederati passavano in mezzo alle parti tagliate in due, si voleva significare che essendo ora uniti con i legami più saldi della religione, e con un voto solenne, essi formavano un solo corpo, come Vatablo ha osservato su Gen. xv. 10. Questi banchetti erano segno di una sincera e duratura amicizia.

VII.

Ma quando Dio nella solennità dei suoi patti con gli uomini, ritenne appropriato usare questi e simili riti, il significato era ancor più nobile e divino. Coloro che stabilivano un patto con Dio mediante un sacrificio, non solo si sottomettevano alla punizione, se rivoltandosi empiamente contro Dio avessero ingiuriato il suo patto; ma allo stesso modo Dio manifestava loro che tutta la stabilità del patto di grazia era fondata sul sacrificio di Cristo, e che il corpo e l’anima di Cristo avrebbero dovuto un giorno essere separati violentemente in due. Tutte le promesse di Dio in lui sono si, e in lui amen, 2 Cor. i. 20. Il Suo sangue è il sangue del Nuovo Testamento, Mat. xxvi. 28, in un modo ben più eccellente di quello con cui Mosè asperse l’altare e il popolo entrato nel patto, Eso. xxiv. 8. Questi sacri banchetti, ai quali i membri del patto erano ammessi innanzi al Signore, specialmente quello istituito dal Signore Gesù sotto il Nuovo Testamento, suggellano o ratificano nel modo più efficace quell’intima comunione e fratellanza che esiste tra Cristo e i credenti.

VIII.

Vi sono dotti uomini che da questo rito vorrebbero spiegare la frase, che abbiamo in Num. xviii. 19 e 2 Cro. xiv. 5, di “un patto di sale,” ovvero, di un patto d’amicizia di natura stabile e perpetua. Questo sembra essere chiamato così perché il sale era abitualmente utilizzato nei sacrifici per simboleggiare che il patto era reso sicuro dall’osservanza di riti tradizionali, dice Rivet su Genesi, Exercit. 136. A meno che non vogliamo piuttosto supporre che si faccia qui riferimento alla solidità del sale, grazie alla quale esso resiste a putrefazione e corruzione, e quindi prolunga la durata delle cose, e in un certo modo le rende eterne. Per questa ragione, si pensa che la moglie di Lot sia stata mutata in una colonna di sale: non tanto, come osserva Agostino, per essere un sale per noi, come un duraturo e perpetuo monumento del giudizio divino. Perché non tutto il sale è soggetto a scioglimento: Plinio dice che alcuni Arabi costruiscono muri e case con blocchi di sale, e li cementano con l’acqua, Nat. Hist. L. xxxi, cap. 7.

IX.

Dopo aver premesso queste cose in generale sui termini della disciplina, investighiamo ora l’oggetto stesso, ossia, la natura del patto di Dio con l’uomo, il quale definisco così: Un patto di Dio con l’uomo è un contratto tra Dio e l’uomo riguardante la via per ottenere perfetta felicità; e comprende una denuncia di eterna distruzione con la quale, chi disprezza la felicità offerta in quel modo, deve essere punito.

X.

Il patto, da parte di Dio, comprende tre cose in generale. (1.) Una promessa di perfetta felicità nella vita eterna. (2.) Una descrizione e prescrizione della condizione, per la cui realizzazione l’uomo acquisisce un diritto alla promessa. (3.) Una sanzione penale contro coloro che non rispettano la condizione prescritta. Tutte queste cose riguardano l’uomo completo, o olokleros, nella frase di Paolo, composto di anima e corpo. La promessa di Dio di felicità è rivolta ad ognuna delle due parti, richiede la santificazione di entrambe e minaccia entrambe di distruzione. E quindi questo patto fa apparire Dio glorioso all’uomo completo.

XI.

Intraprendere un tale patto con la creatura razionale, formata secondo l’immagine divina, è interamente degno di Dio, e in alcun modo degradante. Perché è impossibile se non a Dio di proporsi alla creatura razionale come modello di santità, in conformità al quale questa deve governare sé stessa e tutte le proprie azioni, preservando con cura ed esercitando sempre quella rettitudine originale della quale fu dotata dalla sua stessa origine. Iddio non può che vincolare l’uomo ad amarlo, adorarlo e cercarlo come il sommo bene; nè è concepibile come Dio possa esigere di essere amato e cercato dall’uomo, e poi rifiutare di essere trovato da chi lo ama, lo cerca e lo stima come il suo sommo bene, lo desidera, ed è bramoso e assetato di lui soltanto. Chi può pensare di essere tanto degno di Dio, che Egli debba dire all’uomo, Io desidero che tu cerchi me soltanto, ma a condizione di non trovarmi mai; desidero essere bramato ardentemente sopra ogni altra cosa, con la massima fame e sete, e tuttavia non essere mai soddisfatto. E non meno la giustizia di Dio esige che l’uomo che respinge la felicità offerta ai termini più equi, debba essere punito con la privazione di essa, e allo stesso modo debba incorrere nella più severa indignazione di Dio, che egli ha disprezzato. Da questo è evidente che, dalla considerazione stessa delle perfezioni divine, può essere giustamente dedotto che Egli ha prescritto all’uomo una certa legge, come condizione per godere della felicità, che consiste nel godimento di Dio; attuata con la minaccia di una maledizione contro il ribelle. In questo, abbiamo appena detto, consisteva tutto il patto. Ma di ognuna di queste cose noi parleremo più estesamente in seguito.

XII.

Fin qui, abbiamo considerato una sola parte del patto di Dio; l’uomo diviene l’altra quando vi acconsente accogliendo il bene promesso da Dio, impegnandosi nella rigorosa osservanza della condizione richiesta e, in caso di sua violazione, confessando volontariamente di essere detestabile per la maledizione minacciata. Questo viene chiamato nella Scrittura librakah bevryt yahweh, “entrare in patto con il Signore,” Deu. xxix. 12, “e nel suo giuramento ed esecrazione,” Neh. x. 29. In questa esecrazione (Paolo in 2 Cor. ix. 13 la chiama omologhia, sottoporsi alla confessione) la coscienza si presenta come testimone del fatto che la stipulazione o patto di Dio è giusto, e che questo metodo per giungere al godimento di Dio è molto appropriato, e che non esiste altro modo per ottenere la promessa. E quindi i mali che Iddio minaccia ai trasgressori sono chiamati “le esecrazioni del patto”, Deu. xxix. 21, alle quali l’uomo si sottopone volontariamente acconsentendo al patto. L’effetto di questa maledizione sull’uomo che non rimane nel patto è chiamato “la vendetta del patto,” Lev. xxvi. 25. Nel Sal. xxvii.8 abbiamo la forma di una stipulazione, o approvazione, “Il mio cuore mi dice da parte tua: Cercate la mia faccia. Io cerco la tua faccia, o Signore,” dove la volontaria stipulazione o approvazione corrisponde alla stipulazione o patto fatta nel nome di Dio dalla coscienza, suo ministro.

XIII.

L’uomo, davanti alla proposta di questo patto, non poteva senza colpa rifiutare questa stipulazione o approvazione. (1.) In virtù della legge che lo vincola universalmente ad accettare umilmente qualsiasi cosa proposta da Dio, al quale è dovere essenziale di ogni creatura razionale sottomettersi con ogni rispetto. (2.) A motivo dell’alta sovranità di Dio, il quale può disporre dei suoi benefici e stabilire la condizione del loro godimento con suprema autorità, e senza doverne rendere conto ad alcuno; allo stesso tempo, può comandare all’uomo di impegnarsi a raggiungere le benedizioni offerte alle condizioni prescritte. E quindi questo patto, poiché sussiste fra parti infinitamente disuguali, assume la natura di quelle che i Greci chiamano Ingiunzioni, o patti da comandamenti; dei quali Grotius parla nel suo Jus. Bell. e Pacis, Lib. ii, cap. 15 & 6. Da questo deriva che Paolo le parole di Mosè in Eso. xxiv. 8, “Ecco il sangue del patto che il Signore ha fatto con voi,” le traduce così: “Questo è il sangue del patto, che Iddio ha ordinato esservi presentato.” Non viene lasciata all’uomo [la facoltà] di accettare o rigettare a piacimento il patto di Dio. Non desiderare le promesse significa rifiutare la bontà di Dio. Respingere i precetti significa rifiutare la sovranità e la santità di Dio; e non sottomettersi alla sanzione significa negare la giustizia di Dio. E quindi l’apostolo afferma che il patto di Dio è nenomothetetai, ridotto alla forma di una legge, Ebr. viii. 6, per la quale l’uomo è obbligato ad accettarlo. (3.) Deriva da questo l’amore che l’uomo deve per natura a sé stesso, e per il quale egli è condotto al sommo bene, per il cui godimento non rimane altro metodo che la condizione prescritta da Dio. (4.) La coscienza stessa dell’uomo determina che questo patto è in ogni sua parte grandemente equo. Cosa può essere concepito, anche dal pensiero stesso, di più equo che l’uomo, reputando Dio il suo sommo bene, debba cercare la propria felicità in lui, e gioire all’offerta di quella bontà? Che debba ricevere con letizia la legge, che è la trascrizione della divina santità? Infine, che debba sottoporre la sua colpevole testa alla giusta vendetta del cielo, se gli accadesse di disdegnare questa promessa e violare la legge? Da questo deriva che l’uomo non aveva la libertà di respingere il patto di Dio.

XIV.

Iddio, con questo patto, non acquisisce alcun nuovo diritto sull’uomo; questo, se consideriamo adeguatamente la questione, non è, nè può essere fondato su alcun beneficio di Dio, o mancanza dell’uomo, come sostiene Arminio; nè in alcun’altra cosa al di fuori di Dio; il principale o solo fondamento di ciò è la sovrana maestà dell’Altissimo Dio. Poiché Dio è l’Essere beato e sufficiente a Sè stesso, Egli è il solo sovrano, come scritto da Paolo in 1 Tim. vi. 15. Nè possono il potere e il diritto di Dio sopra le creature essere diminuiti o accresciuti da alcuna cosa estrinseca a Dio. Una cosa, questa, che dovrebbe essere considerata indegna della sua sovranità o indipendenza, di cui a breve parleremo più compiutamente. Solo Dio, in questo patto, mostra quale diritto egli abbia sopra l’uomo. Ma l’uomo, accettando il patto, e realizzando la condizione, acquisisce qualche diritto di domandare a Dio la promessa, perché Dio, con le sue promesse, si è reso debitore dell’uomo. O, per parlare in una maniera più appropriata a Dio, si è compiaciuto di rendere l’adempimento delle sue promesse un debito a sé stesso e alla sua benevolenza, giustizia e fedeltà. E all’uomo che entra nel patto, e che vi continua saldamente, Egli ha concesso il diritto di aspettarsi e di richiedere che Dio soddisfi gli obblighi della sua benevolenza, giustizia e verità, attraverso l’adempimento delle promesse. E così all’uomo che stipula, o acconsente al patto, Dio dice che “sarà il suo Dio”, Deu. xxvi. 17. Ovvero, egli gli darà piena libertà alla gloria in Dio, come suo Dio, e di aspettarsi da lui che Egli divenga per l’uomo, nel patto con lui, ciò che Egli è per sé stesso, una fonte di perfetta felicità.

XV.

Nella Scrittura noi troviamo due patti di Dio con l’uomo: Il Patto d’Opere, altrimenti detto il Patto di Natura, o Legale; e il Patto di Grazia. L’apostolo ci insegna questa distinzione in Rom. iii. 27, dove menziona la legge delle opere e la legge della fede; intendendo con la legge delle opere quella dottrina che indica la via per la quale, mediante le opere, si ottiene la salvezza; e con la legge della fede quella dottrina che indirizza alla fede per ottenere la salvezza. La forma del patto d’opere è, “L’uomo, che avrà fatte quelle cose, vivrà per esse,” Rom. x. 5. Quella del patto di grazia è, “Chiunque crede in lui non sarà svergognato,” ib. verso 11. Questi patti hanno in comune, (1.) Che in entrambi le parti contraenti sono le stesse, Dio e l’uomo. (2.) In entrambi vi è la stessa promessa di vita eterna, consistente nell’immediato godimento di Dio. (3.) La condizione in entrambi è la stessa, ovvero, la perfetta obbedienza alla legge. Non sarebbe stato degno di Dio ammettere l’uomo ad una beata comunione con Lui, se non mediante un’immacolata santità. (4.) In entrambi vi è il medesimo fine, la gloria della purissima bontà di Dio. Ma essi differiscono nei seguenti particolari. (1.) Il ruolo o relazione di Dio e dell’uomo, nel patto d’opere, è differente da quella del patto di grazia. Nel primo Dio agisce come il supremo legislatore, e somme bene, che gioisce nel rendere la sua innocente creatura partecipe della sua felicità. Nel secondo, come infinitamente misericordioso, concedendo la vita al peccatore eletto in accordo con la propria sapienza e giustizia. (2.) Nel patto d’opere non vi era mediatore; in quello di grazia c’è il mediatore Cristo Gesù. (3.) Nel patto d’opere, era richiesta la condizione della perfetta obbedienza, realizzata dalla stessa persona che vi aveva acconsentito. In quello di grazia viene proposta la medesima condizione, che sarà realizzata, o è già realizzata da un mediatore. E in questa sostituzione della persona consiste la principale ed essenziale differenza tra i due patti. (4.) Nel patto d’opere, l’uomo viene considerato come colui che opera, e la retribuzione è data come debito; e quindi non è escluso il vanto dell’uomo, ma questi può gloriarsi come può farlo un fedele servitore all’adempimento dei suoi doveri, e può reclamare la ricompensa promessa per la sua opera. Nel patto di grazia, l’uomo per natura empio viene considerato nel patto, come credente; e la vita eterna viene considerata come il merito del mediatore, ed è data all’uomo per libera grazia, cosa che esclude ogni vanto al di fuori del vanto del peccatore credente in Dio come suo misericordioso Salvatore. (5.) Nel patto d’opere, viene richiesto qualcosa all’uomo come condizione, che, una volta realizzata, gli dà diritto alla ricompensa. Il patto di grazia, rispetto a noi, consiste nelle promesse assolute di Dio, nelle quali il mediatore, la vita da ottenersi mediante lui, la fede per mezzo della quale noi siamo resi partecipi di lui, tutti i benefici da lui acquistati e la perseveranza in quella fede; in una parola, l’intera salvezza e tutti i suoi requisiti, sono promessi in modo assoluto. (6.) Il fine speciale del patto d’opere era la manifestazione della santità, bontà e giustizia di Dio, evidenti nella legge perfetta, nella magnanima promessa e in quella ricompensa di retribuzione, da dare a coloro che lo cercano con tutto il loro cuore. Il fine speciale del patto di grazia è la lode della gloria della Sua grazia, Efe. i. 6, e la rivelazione della Sua insondabile e molteplice sapienza: queste perfezioni divine splendono con lustro nel dono di un mediatore, mediante il quale il peccatore è ammesso alla salvezza completa, senza alcun disonore per la santità, la giustizia e la fedeltà di Dio. Vi è anche una dimostrazione della completa sufficienza di Dio, per la quale non solo un uomo, ma - ben più sorprendente - un peccatore può essere ristabilito nell’unione e nella comunione con Dio. Ma tutto questo sarà più compiutamente illustrato nel prosieguo.


Tratto da L’Economia dei Patti tra Dio e l’Uomo, 1677, cap. 1.

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